[…]Quel che vi è di più puro nella nostra storia avrebbe sconfitto la putredine ovunque dilagante e gli inganni dell’astuta vecchiaia. Volevamo dialogare con l’Imperatore mediante la purezza del nostro sangue ardente, la giovinezza, la verde primavera della nostra età.
In ossequio agli ordini del Grande Signore ridestatosi dal suo sonno, nei campi, nelle risaie, nei boschi un grido di sangue rimasto a lungo sepolto sarebbe risorto e il volto della morte avrebbe assunto le fattezze di giovani e forti guerrieri, e quel grido sarebbe traboccato ribollendo nel tentativo di giungere alle orecchie di Sua Maestà. Speravamo che il più schietto, il più profondo spirito giapponese rimasto fino ad allora nell’oscurità potesse proiettarsi disperatamente verso la luce e parlare con Colui che ne era la sorgente.
Noi li avremmo comandati.
Eravamo i sacri guerrieri che ottemperavano alla divina volontà. Ci dipingemmo un quadro radioso.
Una collina. Era mattino, aveva appena smesso di nevicare e il cielo era limpido, la neve splendeva argentea ammantando la collina, dagli alberi stillavano gocce di felicità e i robusti bambù nani si risollevavano da sotto la coltre bianca. Alla guida dei soldati noi levavamo le spade insanguinate con cui avevamo ucciso i mostri. Le nostre guance erano imporporate, le visiere dei berretti, lavate dalla neve, riflettevano il cielo azzurro su un nero luccichio della lacca.
I soldati erano sereni, attendevano con animo fremente l’attimo di gloria ormai prossimo. L’attimo della salvezza per i genitori in attesa angosciata al paese natale, per le sorelle in preda al dolore.
Alziamo lo sguardo al cielo sereno.
L’azzurro che pervade i nostri occhi si estende fino alle luminose vette innevate delle montagne di fronte, senza una nuvola che ne precluda la vista. La neve che cade dai grossi rami si sfarina, si posa lieve sui nostri berretti.
Poi accade. Dalle pendici della collina si avvicina lentamente un cavagliere il sella a un candido destriero. Non è un uomo. E’ una divinità. E’ l’Imperatore, i Supremo Capo del nostro esercito, il nostro valoroso e magnanimo Comandante.
“Attenti!” ordiniamo ai soldati.
Che cosa, più di quell’ordine virile, potrebbe armonizzarsi con l’azzurro splendore di quel cielo glorioso, sereno?
Sua Maestà trattiene le briglie del suo destriero. la sua venerabile ombra benignamente lambisce i nostri stivali bagnati di neve. I nostri petti si gonfiano sotto la divisa, lo accogliamo presentando le nostre armi. Gocce di sangue scivolano dalla punta delle spade fino all’argenteo, abbacinante luccichio delle else.
“Con deferenza vi annuncio che abbiamo ucciso i vostri nemici, e ora attendiamo serenamente il vostro ordine. Ponetevi a capo del governo, ve ne supplichiamo, e soccorrete il popolo”.
“E sia. La vostra azione è stata esemplare. Avete sin qui patito per causa mia. Ma d’ora in avanti m’impegnerò personalmente nel governo del Paese, affinchè torni prospero e sereno”.
Le sue parole preziose paiono scendere come una fresca voce dal cielo azzurro e limpido. L’Imperatore si degna di aggiungere: “E a voi conferirò una carica, affinchè possiate divenire il nucleo del mio esercito. Abbiamo finalmente capito. L’esercito imperiale necessita di guerrieri fedeli. Voi estirperete le vecchie, nefaste abitudini, e gli restiturete l’antico prestigio”.[…]
YUKIO MISHIMA
P.S. uno scritto di Mishima racconta l’esperienza di una seduta spiritica in cui viene a contatto con i Kami e gli spiriti degli antenati, che gli parlano di un evento veramente accaduto; l’uccisione di politici e dignitari corrotti, ma che quest’atto fu ben diversamente recepito dall’Imperatore dando la morte a chi a compiuto il gesto, ciò spiega molto del concetto di onore e della storia giapponese, nonchè dell’atto di cui anni dopo, il 25 novembre 1970 fu protagonista, che segnò la conclusione della sua vita con il suicidio rituale.
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